Ludovico Savioli e la poetica classicistico-rococò

Il Rolli porta nella sua poesia e specialmente in quella della maturità (quando l’insegnamento classicistico del Gravina venne a fondersi con lo stimolo del piú diffuso classicismo inglese e trovò una funzione di vivacità e di collaborazione con il vivo gusto rococò di figure e di colori aderenti a figure di brevi forme capricciose e sostenute) una tendenza al figurativo, all’evidenza plastica e pittorica, ad una concisione esauriente anche se spesso piú voluta che ottenuta e scaduta facilmente in sforzo e in una certa goffaggine e sommarietà[1].

Tale tendenza che, nella sua poesia di tenue vena, risulta presente anche nelle canzonette (canto annodato in figure piú di quanto appaia nel Metastasio e che certo corrisponde ad un suo istinto di ingenuo realismo, di amore delle cose e delle figure vive e sensibili, anche se poi sfumate dal «non so che» e colorite in maniera approssimativa o esagerata), si svolse in condizioni culturali già piú omogenee e l’efficacia rococò, il gusto della miniatura, essenziale per tutto il Settecento fino al Parini, si incontrarono nella viva e ammodernata lezione dei classici sentiti nella loro esemplare perspicuitas e in un vago, generico sensismo diffuso già nel primo Settecento, specie in quello inglese[2], e che sempre piú verrà ad essere precisato e sostenuto in senso illuministico dalla filosofia sensistica.

La cultura di metà Settecento offre condizioni piú sicure e piene per la tendenza letteraria che può trovare il suo inizio nel Rolli (e che naturalmente da un punto di vista di risultati il Rolli esaurisce a suo modo nella propria esperienza personale) e mentre un’intensa attività di traduzione dai classici, frutto dell’iniziale aspirazione graviniana ed arcadica (per quanto varia e spesso dilettantesca o inadeguata o fortemente deformatrice), viene ad offrire alla lingua poetica un lessico e modi sintattici piú direttamente classicistici, nella maggior maturità delle componenti rococò le tendenze classicheggianti – per nulla in contrasto colla piú decisa modernità (si pensi all’Algarotti preilluminista e classicista) – si rafforzano nell’utilizzazione delle nuove scoperte archeologiche. Che sembrano tra l’altro adattissime a confortare un classicismo miniaturistico e rococò. E la spinta edonistica del «siècle des plaisirs» e di una gustata e larga «volupté»[3] trova un appoggio nella filosofia sensistica (già al cartesianismo si è sostituito il newtonianesimo con la sua accentuazione piú fisica ed empiristica e tutta l’epoca è percorsa da una curiosità di esperienze concrete e di controllo sensoriale) che autorizza filosoficamente (e l’autorizzazione della filosofia è richiesta dal secolo quanto quella dei classici) questo bisogno di fruizione concreta, di contatto con le cose nei loro aspetti piú sensibili, che solo alla fine del secolo sarà sentito come limite insopportabile della natura umana.

Veder, toccar, udir, gustar, sentire

tanto, e non piú ne diè natura avara,

dirà tetro e appassionato l’Alfieri, ma il Settecento accetterà generalmente con gioia tale sensorialità della conoscenza e lo stesso neoclassicismo che pure sognerà archetipi perfetti, idee celesti e platoniche, le vorrà praticamente gustare in forme sensibili e piacevoli, in gesti assoluti ma non privi di morbidezza, in linee elette e pure ma risveglianti echi di sensibilità tenera: «Vestir di eletta giovinezza i marmi» sarà uno dei sogni degli artisti neoclassici già in epoca romantica, ma la variante «molle giovinezza» può indicare anche nelle Grazie come un’eco della grazia piacevole settecentesca.

Sarà il Parini che assumerà con maggior serietà e con maggior decisione, riscattandoli insieme con il suo senso alto della forma poetica e con la sua profonda moralità, l’edonismo ed il sensismo settecentesco (e potrà anche fare la caricatura delle sue forme piú impoetiche come potrà satireggiare lo scientificismo e il didascalismo piú prosastici e pedanteschi). Ma lo stesso Parini, nella sua personale poetica piú chiaramente illuministica, utilizzerà comunque quel linguaggio voglioso di evidenza sensibile, di rappresentazione di cose concrete, di sensazioni da spremere fino in fondo come riserva fiduciosamente attinta di immagini poetiche e come garanzia di vitalità e di utilità[4]: linguaggio che si forma e si precisa fra le traduzioni dei classici, i poemi didascalici e la letteratura galante classicistica di metà secolo. Mentre il semplice canto metastasiano rimane come componente secondaria o si riduce in limiti provinciali di cultura poetica attardata che nel secondo Settecento, in periodo piú decisamente neoclassico e preromantico, si chiamerà dispregiativamente «facilismo meridionale».

Sull’incontro di uno sviluppo piú deciso del rococò (passato nella moda piú vulgata delle cosiddette arti applicate e proprio nei termini di una società piú chiaramente francesizzante dopo quella piú incerta del primo Settecento, piú meridionale e ancora ricca di magnificenza spagnolesca ed imperiale) e di una mentalità illuministico-sensistica nella sua divulgazione piú galante ed edonistica e di una lettura di classici da boudoir (piú Ovidio ed Orazio e gli elegiaci che Pindaro od Omero) appoggiata alla nuova passione per i cammei e per le pitture ercolanensi, l’esperienza poetica di Ludovico Savioli rappresenta senza dubbio un momento essenziale nella cultura letteraria settecentesca. E se possono valere le limitazioni del Croce quanto alla sua mancanza di profondità, alla sua intrinseca mediocrità poetica, all’esiguità delle sue prestazioni liriche, e appaiono ingenue anche le caute valutazioni in cui affiorano aggettivi di piena lode[5], la consistenza del suo esile nucleo ispirativo va considerata in funzione della sua importanza e della sua centralità nel classicismo settecentesco. Non solo per l’elegia amorosa[6], come capacità di dar vita ed espressione, a suo modo esemplare ed efficace, ad un diffuso sentimento e gusto rianimato nelle sue condizioni medie generali, ma per la sua volontaria difesa dalla piú facile dispersione prosastica, didascalica e utilitaristica, che indica la sua limitatezza di interessi illuministici, ma anche la sua relativa consapevolezza di una propria via poetica, ed accresce, di fronte alla piú larga sintesi pariniana e di fronte alla discorsività rischiosa dei didascalici, la sua importanza di esperienza media ma ben conclusa di côté piú schiettamente edonistico-poetico.

Certo il classicismo fu in questo periodo bon à tout faire e coincise volta a volta con esigenze di edonismo o di austerità stoica di saggezza, di volontà rinnovatrice, di poesia scientifica (i novelli latini del Gravina). E l’utile dulci funzionò a pieno impiego proprio attraverso il condotto classicistico, con l’autorizzazione oraziana, con l’esempio piú alto della favola utile e ammaestratrice del Gravina, la cui giustificazione piú profonda del classicismo è invece assente dalla poetica savioliana. Anche questa impiega il mito con grande abbondanza e con piena fiducia nella sua taumaturgica poeticità, ma si consideri bene la separazione che il Savioli stesso operava della propria poetica da ogni utile dulci isolandosi volontariamente e senza inutili scuse, molto comuni in quell’epoca[7], nel campo del piacevole e dell’erotico coraggiosamente inalberando come bandiera il titolo edonistico ovidiano.

«Io sono nato in un secolo, in cui gli impegni e gli studi degli uomini sono rivolti all’utilità. La filosofia, l’agricoltura, le arti, il commercio acquistano tuttodí nuovi lumi dalle ricerche dei saggi: il voler farsi un altro nome tentando di dilettare, quand’altri vi aspira con piú giustizia giovando è impresa dura e difficile. Ho dunque scritto non ad altro oggetto che di esprimere quel ch’io sentiva e mi sono tranquillamente disposto a non essere letto», dice il Savioli nella prefazione del 1765 a Vittoria Corsini. Sicché quella dichiarazione resta rappresentativa di una reazione interessante[8] (in nome della galanteria, ma anche in nome della poesia timorosa di essere sottoposta a funzioni prosastiche) all’ondata di didascalismo scientifico o addirittura di disprezzo per la poesia come inutile diletto (e quindi, se il saviolismo urtava con il piú severo neoclassicismo civilizzatore, d’altra parte con il neoclassicismo conveniva nel rifiuto di una funzione utilitaristica e discorsiva della poesia); e, consapevolmente, indica un volontario approfondimento del motivo edonistico cosí vivo ed essenziale nella sintesi piú complessa del Parini e negli stessi pensatori illuministici.

Questo senso del piacevole che si appoggia ad una volgarizzazione del sensismo spesso orecchiata, e piú ad un animus generale, che non alla filosofia che quell’animus aveva generato nutrendosene e confortandosene a sua volta, sembra trovare nel tempo gioioso, avido, elegante dei Van Loo e dei Fragonard[9] una condizione propizia nell’incontro con un rinnovato amore dei classici appoggiato e giustificato nella loro perspicuitas, nella loro suggestione di eleganza e di mondano edonismo, e con la nuova moda delle pietre incise e con le scoperte delle pitture ercolanensi e pompeiane.

In realtà questa componente nuova del gusto classicistico (e non diciamo neoclassico ancora, perché a questa parola sarà necessaria la precisazione indispensabile del messaggio winckelmanniano), costituita dalla conoscenza e dall’entusiastica assimilazione delle nuove scoperte di pittura e plastica ellenistica, era giunta tempestivamente a soddisfare una richiesta genericamente omogenea e disposta ad assorbire la sua accentuazione e precisazione[10].

Sicché, meglio che nel caso del Frugoni, che richiederebbe lungo e particolareggiato esame per i suoi parziali accostamenti al classicismo rococò, l’opera del Savioli testimonia centralmente di questo confluire di direzioni e di esperienze nel comune denominatore classicistico in una condizione felice e propizia di omogeneità o meglio di possibile aggregato, nella larga componente rococò, della esigenza sensistica di evidenza e della concisione evidenziatrice e stilizzatrice della miniatura portata a maggior precisione dal cammeo antico e poi dalle figurine ornamentali delle pitture pompeiane. In queste condizioni la persistente lettura dei classici viene ad assumere un’importanza piú precisa proprio per quella perspicuitas (piú che per il lucidus ordo che aveva affascinato Metastasio) che si fa sempre piú sensuosa e spiccata, capace di captare e rilevare in una concisione pregnante ed elegante impressioni ed immagini della vita presente nobilitandole e impreziosendole nella patina classicistica e nel richiamo alla mitologia, tutto carico di suggestioni sensuali, edonistiche e insieme rivisto nella utilizzazione dell’arte ellenistica come quadretto, come figura graziosamente nobilitante ed esemplare.

Il fermento piú graviniano del Μύθους ἀλλ'οὐ λόγους , vivo come abbiamo visto in Metastasio e in Rolli, perde qui il suo carattere profondo che riacquisterà nel neoclassicismo romantico (e l’accento si sposta sui poeti meno considerati dal Gravina), ma non manca una sottile e preziosa garanzia di renovatio classica di riferimento alla forza originaria del mito pur adattata a forme eleganti e a una funzione stilistica ed edonistica, proprio come forza della parola che vuole essere tutta immagine e figura (piú che piacere per gli orecchi) e portatrice di una verità men profonda ma non meno socievole (il contatto fra eleganza edonistica e civiltà si vedrà ben diversamente nel Parini): la verità della bellezza e del piacere di quel «fuoco» che è l’istinto amoroso tradotto in eleganza e sorriso, che il giovane Foscolo riprenderà nelle sue prove iniziali savioliane-bertoliane.

Nel Savioli il sensismo è qualcosa di raffinato e di elementare: sensismo come descrizione del valore edonistico delle sensazioni e quindi, in forme di società elegante, di libertina spregiudicatezza. Qualcosa di simile al piú facile epicureismo frugoniano, ma piú storicamente aggiustato, nell’aria del tempo e coerente a un centrale bisogno di concretezza, di fruibile, di edonistico inseparabile da eleganza.

Incontro che richiama anche una condizione socievole e culturale di aristocratici, come era il Savioli, non privi, nel loro stesso gusto moderatamente libertino, di un certo spirito di spregiudicatezza razionalistica, illuministica, di una certa «fede» (per quanto aristocraticamente snobistica) in una civiltà tutta mondana e laica: sicché poi il Savioli poté aderire a idealità democratiche, nel periodo rivoluzionario, e appartenere al gruppo di piccoli poeti del Parnaso repubblicano della Cisalpina.

Non dunque la poesia di Winckelmann come fu detto dal Carducci, e non senz’altro poesia neoclassica secondo l’analisi del Momigliano[11], ma semmai la poesia delle gemme incise, dei cammei di Caylus in cui l’esigenza della miniatura rococò veniva rinsaldata e superata in piú dura incisività, ma non perdeva il suo gusto di piccole proporzioni, di sommarietà gustosa già a suo modo classicheggiante.

È l’epoca dei cammei, delle pietre incise, di cui il Winckelmann glorificherà gli esemplari della collezione Stosch per la lor definita compendiosità. E, se si vuole allargare subito il quadro del gusto a cui corrispondono gli Amori del Savioli, si possono considerare le Stampe di Ercolano iniziate nel 1755 e uscite in parte (le pitture) fra la prima edizione (1758) e la seconda edizione, accresciuta (1765), degli Amori.

L’accostamento fu già fatto da Attilio Momigliano, ma va subito precisato che non tanto di immediata azione in senso neoclassico delle Stampe sul Savioli si può parlare, quanto di una contemporaneità delle nuove suggestioni figurative in senso classicistico-rococó.

E si noti che l’azione delle Stampe ercolanensi fu come graduata in diversi momenti dello sviluppo neoclassico settecentesco (uscirono dal 1755 al 1792), agendo i primi volumi di pittura piuttosto in direzione di classicismo rococò, e gli ultimi (bronzi e nuovo volume di pittura) in piú chiara direzione neoclassica.

Se si leggono le brevi introduzioni degli editori delle Stampe, in mezzo alla farragine di erudizione che ne fa interessanti repertori classicisti e mitologici (identificazione di personaggi mitici e storici e loro collocazione nei riferimenti della letteratura greca e latina), si noterà il gusto postarcadico ma ancora rococò in cui il classicismo si unisce alla grazia del «non so che», del capriccio e dell’estro.

Cosí di una deliziosa e raffinatissima Andromeda (LXI del IV volume uscito nel ’65) o di una architettura fantastica diranno «graziosa e vaga... irregolare e capricciosa», in un evidente contrasto fra il gusto rococò e l’insorgente canone della regolarità e della grazia riposante e della energia di forma della bellezza ideale.

Mentre nell’ultimo volume (1792) il «grazioso» in senso rococò cede al «semplice» o al «semplicissimo» e un ben maggior riserbo e una maggior rigidezza guidano i compilatori nelle loro presentazioni che tendono sempre piú chiaramente da erudizione a pretesto di ricostruzione di mitologia e storia antica a cui l’indice delle «cose notabili» aggiunge un carattere di glossario mitologico da servire a poeti e a pittori.

E nel volume VII (V della pittura), che è del 1779 (dopo Winckelmann), il passaggio dal gusto eclettico a piú deciso neoclassicismo è sempre piú evidente. Sí, specie nelle grottesche e nelle decorazioni (i pigmei del LVII), da cui deriverà tanto Chippendale, vengono trovati con terminologia rococò, vaghezza e capriccio, ma per lo piú una provvidenziale presenza di pitture piú decise corrisponde ad una valutazione diversa. Meno capriccio, piú solennità e «sublime»: le immagini di Urania, di Pallade, solenni e gentili, Apollo (XLVIII) o l’Arianna seduta e appoggiata a rocce con un amorino piangente e lontano una nave (XXVI), in cui prevale il gesto catartico e calmo. Come nella pittura della I tavola, di estrema compostezza di gesto, con lo sguardo pensoso e misuratamente estatico (degno veramente di avere ispirato David e Canova), o come la bellissima figura di giovane alata con un velo teso, ad arco, sopra la testa (XV, forse un’Alba o un’Iride), che fa pensare alla «Gioia alata degli dei forieri» delle Grazie foscoliane; o come la giovane seduta della LI, con un dito alle labbra e il gomito sul ginocchio appena sollevato, composta e misteriosa.

Immagini pensose, decorose, rispondenti alla edle Einfalt und stille Grösse, o, nei bronzi, Giovi fulminanti, busti eroici a proposito dei quali si accenna sempre piú alla «proprietà della mossa» e del gesto.

Ma nel periodo del Savioli le pitture ercolanensi non sforzano a un decisivo senso di alto, austero classicismo, e confortano in senso classicistico il gusto del piacevole, del grazioso capriccioso, e perfino in certe scenette alessandrine, in certi paesaggi raffinati, non mancava un certo gusto di descrittivismo accurato e pittoresco da lacca e da cineseria, come anche nel Parini un gusto di esotismo non urta ed anzi collabora con certe forme di classicismo miniaturistico.

Proprio le tavole delle pitture ercolanensi autorizzavano e accentuavano la giustificazione di uno speciale classicismo sorridente, ornamentale, elegante, in cui il sostegno della linea non escludeva ed anzi implicava la mollezza graziosa di una sensibilità edonistica, di un vivace colorismo compendioso e raffinato.

E con la ricchezza di figure mitiche rinfrescavano visivamente una vitalità della mitologia nel suo risorgere ornamentale, nella sua offerta di figure di bellezza, di pretesti sensuali, perfino di scenette fra tenere e domestiche come la famosa scena delle venditrici di amorini del III volume: tutte offerte e stimoli non vigorosamente rinnovatori anche se, attraverso la coincidenza con certo gusto rococò e attraverso uno speciale classicismo edonistico e sensistico, caldeggiano progressivamente l’amore del gesto e della linea regolare, ben al di là di quel «non so che di vago ed espressivo» di cui parlavano gli editori alla tavola XXVI del I volume.

Gli Amori del Savioli denunciano anzitutto quell’amore per la mitologia come lingua e cultura poetica che sostituisce la terminologia pastorale dell’Arcadia e porta già con sé implicita una tendenza al quadretto e alla decorazione elegante e galante. Cosí il dizionarietto mitologico che segue gli Amori è conciliazione del gusto divulgativo settecentesco e del prezioso amore per una totale vitalità mitologica e quindi classicistica di quella poesia: dizionarietto che, nella sua unica eccezione per i Silfi, come creature d’una «moderna mitologia» autorizzata da Pope, indica la volontà di escludere ogni accenno che non si riferisca al mondo dei bei miti antichi.

Mitologia non tanto per rinnovato spirito pagano[12] quanto per funzione galante, erotica. Lo dice anche la prefazione che loda il Savioli per «la novità dello stile, la leggiadria dei numeri facili e armoniosi, e sovra tutto per la moderna galanteria sparsa di fiori mitologici e condita di sapore antico».

Poetica di persuasione erotica che serpeggia attraverso la poesia lirica di quegli anni, ma che in questo volume entra in sintesi con un classicismo educato e senza esitazioni. Classicismo che utilizza la mitologia per il suo riferimento a un mondo sensuale, di godimenti (la ragione per cui il Manzoni rigetterà la mitologia come immorale), e utilizza le immagini classiche e la tecnica dello stile classico per la sua forza di precisione, di rilievo evidente, indispensabile ad una vera efficacia di rappresentazione sensibile di vita galante.

La vena di sorridente culto erotico (che viene a volte sentito o come elegante traduzione o come giustificazione naturalistica: si pensi alla vaporosa religiosità erotica di tante scene di Casanova, e per esempio alle pagine significative dell’avventura con Angélique e Lucrèce) si svolgeva esemplarmente in una misura classica, come il sensismo piú o meno cosciente, che si diffonde a metà del secolo, vuole una forma che lo sostenga e gli permetta di captare ed eternare le sensazioni piacevoli.

Non poetica neoclassica, ripeto, ma classicismo in zona di preparazione di neoclassicismo e utilizzabile da parte di piú chiara coscienza della bellezza ideale e della calma serenatrice superiore alla semplice grazia del piacere.

Nel passaggio dalla prima edizione del ’58 di Bologna a quella del ’65 di Lucca[13] il volumetto si raddoppiò e là dove nelle prime dodici odicine il poeta portò qualche correzione rivelò ancora la sua preoccupazione di maggiore incisività (anche nei titoli soppresse quelli troppo lunghi: Alla nutrice che custodisce la fanciulla diventò Alla nudrice; Alla fanciulla che si adorna divenne Il mattino, o li variò per timore di monotonia: Alla fanciulla divenne La felicità) e di rilievo di movimento sorridente e luminoso, specie nei finali su cui soprattutto puntava la sua poetica di efficacia e di presa mnemonica. Cosí nel Mattino nella bella strofa «Tal da’ superbi talami... Ippodamia scendeva» il finale diviene con felicissima correzione «Ippodamia sorgea», e mentre qua e là il Savioli nobilita alcune parole riavvicinandole di piú al loro etimo latino («imagine» per «immagine») o scioglie nessi piú contorti in forme piú rapide ed efficaci (cosí in Alla nudrice le correzioni alla strofa quarta e quartultima), nella prima A Venere vengono soppresse tre strofe finali che smorzavano l’effetto di piccolo inno e divagavano in preghiere piú da «segretario galante». E nella Felicità, nel quadretto finale di Didone e di Enea, la penultima strofa è nobilitata ed alleggerita ed il sorriso confidenziale che prima affiorava eccessivo («Intatta al buon Sicheo») viene piú finemente assorbito nella intonazione sacro-elegante coerente alla sagoma delle miniature savioliane in cui un’ironia bonaria, una malizia da buongustaio (nulla di De Sade in questo libertino molto moderato pure nelle sue professioni di edonismo bolognese) cerca di resistere nelle forme stesse della galante eleganza e addirittura nel travestimento stesso mitologico e classico come una sottile compiacenza di bravura e di dilettantismo.

Si riveda ora soprattutto la prima odicina A Venere e se ne trarranno alcune facili costatazioni. La costruzione è piuttosto a scenette staccate che a linea continua, tanto da far pensare a quadretti separati e giustapposti decorativamente per efficacia di immagini isolate.

La musica non fluisce, si arresta ai bordi delle quartine che nel giuoco alterno di sdruccioli e piani attuano una breve e conclusa armonia collaborante nella sua lucidità e nel suo ripetersi preciso e gustoso alla ricerca di una lirica media, di una espressione elegante e ferma del ritmo piacevole della vita condensata in un susseguirsi di momenti piacevoli tradotti in immagini piacevoli: a cui un vago sensismo, nel suo amore per il presente percepibile il piú possibile, assicura la massima validità non illusoria.

Scarsa musica e funzione sussidiaria delle rime per un ritmo in fondo monotono, nelle sue cadute e riprese piuttosto secche e metalliche: e il primo a notare la monotonia, dal suo punto di vista ancora arcadico o di brillante, colorito rococò, fu il Frugoni, che pure passò dalla polimetria piú accesa a tentativi ulteriori in versi sciolti: «Mi è di costà stato trasmesso un volumetto di canzoni stampate delle quali è autore il signore conte Savioli (scrive il Frugoni in una lettera all’Algarotti). Vorrei che me ne diceste voi il vostro sentimento senza simulazione alcuna. A me paiono belle e graziose. Lo studio delle ovidiane elegie vi campeggia per tutto. I colori latini vi s’incontrano ad ogni tratto. Non mi piace però quella conservazione dello stesso metro in tutte. Parmi che se lo avesse l’autore variato, avrebbe fatto piú piacere a chi legge e piú onore alla lingua nostra, la cui fecondità non ama di essere ristretta. Mi pare, a cagione di questa uniformità di numero, di sentire per entro a queste eleganti canzonette quel suono sempre cadente ad un modo, che mi stanca ne’ versi martelliani. Io forse m’ingannerò. Voi mi trarrete d’errore, se vi sono».

Il rigore classicistico è sentito come assicurazione di una specie di eternità, di fermezza al momento edonistico, impedendo con la sua forma stilizzante, con la sua forza di immagine nitida e di suono senza fughe e sfumature, uno slabbrarsi e cedere della sensazione piacevole trasportata in poesia.

Le continue perifrasi mitologiche funzionano insieme da appoggi in una poesia scarsamente ispirata (linea di mitologia erotica, tono religioso e sorridente) e da piacevoli pretesti di divulgazione galante. «Mitologia per le dame», l’ha detta il Momigliano, che nota come il mondo del Savioli sia tutto femminile: e certo la poesia del Savioli presuppone un pubblico femminile e di salotto.

Le quartine nel gioco alterno di sdruccioli e piani[14] attuano una breve e conclusa armonia monotona ed insistente nelle sue cadute o riprese piuttosto secche e senza vera risonanza, in cui le rime si riducono a funzione sussidiaria di fronte alla ricerca di un ritmo e di un disegno abbreviato ed incisivo. A cui non manca di certo una sciatteria spesso approssimativa per troppa sommarietà efficace, come si può vedere alla seconda strofe dove un’immagine sensibile e pregnante nei primi due versi è seguita da espressioni di copertura convenzionale. Eppure nell’insieme la strofetta ha una sua efficacia, una sua conclusione. E la suggestione mitologica cosí fortemente sfruttata si appoggia al riferimento figurativo (la figurina di Venere nella pietra incisa nella collezione Stosch) e il poeta punta naturalmente sull’elemento piú malleabile dell’aggettivo («o molle Dea di ruvido fabbro gelosa cura»), sicché la vicenda mitica di Venere e Vulcano viene riassunta ed evidenziata per mezzo dei tre aggettivi e specialmente nel contrasto dei primi due, molle e ruvido, che addensano il massimo di sensazione specifica a illuminare la femminilità di Venere e la rozza virilità del marito in un esito piacevole e malizioso, efficace e sorridente, galante e preciso. Tenui colori sentimentali vengono accentuati con abile tecnica di rilievo nel giro di un enjambement in valore di abbandoni subito ripresi e in funzione di una morbidezza senza vere sfumature e senza alone musicale: «Le tenere / fanciulle» «languidi / begli occhi». E in quei quadretti e figurine senza violenza la gracile curva morbida del rococò si sorregge su di un taglio conciso e spesso persin goffo e sciatto per sforzo di concisione, per rapida presentazione efficace ed elegante. Come nel ritmo breve, nelle linee minute di cammeo, e di miniatura arieggiante al cammeo (la vera miniatura sarà piuttosto arieggiata del Parini), una energia tra sorridente e pretenziosa (un che di ironico e di saputo si sprigiona spesso dalla sistematezza e dalla concisione spesso un po’ stecchita e compitante dei versicoli savioliani, delle mosse a volte marionettistiche delle sue figurine) sostiene le rapide immagini in un’andatura di sfilata scattante e automatica in una luce senza fremiti, in una breve musica senza echi, ma con un sapore caratteristico di eleganza figurativa, di linee e di gesti minuti e sommari, precisi e rilevati, a volte affascinanti per la loro breve, ma intensa capacità di rappresentazione rapida e intera.

E mentre udir propizia

solevi il flebil canto

tergean le dita rosee

della fanciulla il pianto.[15]

Piú che chiarezza evidenza, volontà e capacità (costante la prima, non costante la seconda e incostante l’esile vena di ispirazione surrogata a volte da un semplice gusto di cronaca galante) di trasformazione di una sorridente realtà di boudoir in precisa grazia di cammeo antico, di stilizzazione di un paesaggio contemporaneo in coerenti e gustosi moduli classicistici.

Tutta una frivola e delicata vitalità (mossa nel suo fondo da un’avidità di piacere smorzata da un’educazione compostissima), un movimento di figurine moderne con atteggiamenti del costume moderno (passeggiate in carrozza, incontri in teatro, maschere carnevalesche, convegni notturni, toilettes mattutine) si realizzano artisticamente in quanto tale realtà è assunta in forme sostenute ed eleganti che ne conservano il fascino piú sensibile e lo essenzializzano rappresentandolo lucido e polito in un linguaggio per sua natura disposto ad elevare ed evidenziare, specie nella direzione della lirica latina culminante in Orazio.

Altre volte una volontà di rappresentazione della realtà moderna ricorrerà al linguaggio classico («Tu pur pensosa Lidia la tessera / al secco taglio dai della guardia») e il Foscolo delle Grazie riuscirà a rappresentare la vita dell’elegante città di Flora nel piú puro linguaggio neoclassico e addirittura vi tradurrà i piú intimi movimenti romantici, ma qui – ben lungi da questa piú alta esperienza e in vicinanza della esperienza pariniana certo omogenea, ma tanto piú ricca e potente – il Savioli tende a cogliere piccole immagini di una piccola vita di società nell’ambito ristretto della galanteria, del sentimento ironico-erotico, brevi scene cittadine, brevi mosse di figure eleganti: una realtà che poteva essere facilmente trasposta, cosí poco complessa e sostanzialmente monotona nella sua superficiale vivacità anche se celante quel tanto di fervore vitale e socievole che nello stesso edonismo aristocratico implicava un aspetto di civiltà piú libera, non tutta estranea alla civiltà illuministica.

In questa direzione di piccolo realismo galante tradotto nella sua evidenza sensibile ed affascinante, attraverso la suggestione e la ripresa del linguaggio dei classici ridotto a proporzioni di cammeo, il Savioli raggiunge risultati davvero gustosi e nitidi che già furono sapientemente notati nel saggio critico del Momigliano.

Ecco l’incontro inatteso del Passeggio nella via suburbana bolognese

(Dall’una parte gli arbori

al piano suol fan ombra;

l’altra devoto portico

per lungo tratto ingombra)

dove la dama-dea fa arrestare la carrozza in un’altra di quelle strofette da quadro miniaturistico tutta conclusa e presentabile nello stimolo generale della lieve vicenda erotica come risultato in sé e per sé.

La bella intanto i lucidi

percote ampi cristalli;

l’auriga intende e posano

i docili cavalli.

Ecco nel notevolissimo Mattino, in cui la cura della rappresentazione sorridente e galante e della evidenza sensibile e della mobilitazione classica a sollevare il costume contemporaneo è quanto mai viva e a fuoco, il quadretto della prima colazione:

cinese tazza eserciti

beata il tuo costume,

e il roseo labbro oscurino

le americane spume.

O la descrizione dei preparativi della toilette:

Vieni, sia fausta Venere,

gli uffizi Amor comparta,

le Grazie in piedi assistano;

tu sederai la quarta

rinforzata dal nitido e arioso quadretto mitico:

Tal da’ superbi talami

dell’ampia reggia achea,

sciolta dal caro Pelope,

Ippodamia sorgea.[16]

O il quadretto agilissimo della pettinatura:

Già dal notturno carcere

i crini aurei sprigiona

ed all’eburneo pettine

gl’indocili abbandona.

O la bella sequenza d’immagini mitiche su cui l’odicina poeticamente si conclude:

Arser d’amara invidia

poi le dardanie spose.

Arse d’amor Deifobo,

ma ’l foco incerto ascose.

O infine il quadretto dell’aurora fra Watteau e le Tavole Ercolanensi:

Altri color non ornano

la giovinetta Aurora,

quando Titon scordandosi,

l’oscuro ciel colora.

La bella, rappresentata gustosamente e nobilitata già nella impeccabile aderenza concisa del linguaggio ai suoi movimenti, alle sue linee (come nella strofa della pettinatura in cui il linguaggio è in simpatia coll’immagine della scherzosa tiranna notturna dei capelli: «carcere, sprigiona, indocili, abbandona»), è nell’altra parte senza fatica trasformata (nell’aura tutta eleganza aggraziata e mitologica e tutta suggestione figurativa) in una minuscola e fragile Elena argiva, e il boudoir settecentesco e l’eletta scena omerica ridotta miniaturisticamente si fondono in proporzioni di eleganza e di evidenza sensuosa e gustosa in piccole e perfette dimensioni di cammeo.

Proprio l’immagine mitologica, sentita come scenetta visiva di nitida perfezione ed evidenza, in cui si è rappreso tutto un senso lieto e favoloso della vita e ricco di suggestioni visive, è usata dal Savioli come appoggio ai momenti piú centrali e specialmente nei finali a suggellare, a concludere (come facevano le ariette metastasiane nella direzione del canto-saggezza) in perfezione di nitida e gustosa immagine[17].

Come avviene nella ventesima ode Il sonno, in cui la voluttuosa fantasticheria della bella che sogna l’amante trasferisce la sua conclusione piú limpida e distaccata nelle due quartine finali:

Sovente ancor Penelope

sognò del greco amato

e nel sognar destandosi

credette averlo a lato.

Poi fra le piume vedove

tesa l’incerta mano

dell’error lassa avvidesi

e pianse a lungo invano.

Quella che il Croce chiama «erudizioncella mitologica» è in realtà fuori di ogni pretesa di profondità o di rarità erudita (abbiamo visto che il Savioli si pone in posizione di divulgatore elegante «per le dame» e la sua sottile poesia vive coll’accento di suasione erotica), è in realtà l’appoggio piú vivo ai quadretti di scenette piú realisticamente settecentesche e in essa queste trovano lo svolgimento piú sicuro della loro tendenza ad una rappresentazione viva ed eletta. Le scene mitologiche sono non solo essenziali a sostenere il tono elegante e ironico delle odicine savioliane, ma sono anche spesso i punti di maggior impegno e di maggior risultato.

Come si può vedere chiaramente nelle odi migliori come quelle citate e come l’ottava (All’amica che lascia la città), in cui la collaborazione tra eleganza classica e piccolo realismo di salotto è già suggerita dal titolo e dal breve paesaggio iniziale stilizzato con rapide impressioni in personificazioni mitologiche:

Ai freddi colli indomito

il ghiaccio ancor sovrasta

soffia Aquilone e ai Zefiri

signoreggiar contrasta.

Sdegnoso il verno esercita

le moribonde forze

chiude timor le Driadi

nelle materne scorze.

Il motivo superficiale della gelosia è in realtà funzionale alla serie di immagini mitologiche che acquistano una maggiore gustosità dalla spinta piú chiara, e d’altra parte elegante e sorridente, al riferimento sensuale; ed è un quadretto di deliziosa grazia sensuale che domina centralmente tutta la poesia:

Casta abitar compiacquesi

Diana ancor le selve;

la pura mano armavano

dardi terror di belve.

Al cacciator Gargasio

che osò mirarla al fonte,

ultrici acque cangiarono

la temeraria fronte.

Pur crederai? D’Arcadia

l’incolto dio la vede:

offre e del dio le piacciono

le offerte, e il ceffo e il piede.

Nol seppe il sol; piú tacita

l’oscura notte arrise;

vide contenta Venere

la sua vendetta e rise:

roser lascivi i satiri

meravigliando il dito;

e alle ritrose Oreadi

piacque l’esempio ardito.

Sulla doppia direzione della casta Diana (la pura mano si profila in simpatia col primo tono) e dell’incolto Pan (ceffo e piede accentuano il tono curioso e rozzo come un colore sanguigno e bruno alla Rubens) fiorisce la scenetta erotica, uno dei risultati piú vivi, composti e sottili di questo piccolo poeta.

Un nuovo breve ritorno al tema della partenza e della gelosia e di nuovo la valorizzazione di quella fuga di carrozza settecentesca mediante la incisione del ratto di Proserpina con un gusto di figurina grottesca e piacevole:

Non s’involò piú rapida

sull’infernal quadriga

la siciliana vergine

preda di nero auriga.

Dopo di cui, e dopo l’eccessivo tour de force mitologico, cade il finale piuttosto confuso ed esteriore.

Di fronte a questi risultati cosí efficaci e cosí limitati, in cui una sottile forza artistica riesce ad imporsi per breve tempo e ad accendersi in momenti culminanti di lucida visività, in cammei preziosi piú che in organismi complessi e compatti, ci si può meravigliare degli entusiasmi del Torti che, nella sua singolare posizione fra arcadica e preromantica, eleva il Savioli al di sopra del Parini come il poeta che «restituisce alla poesia il sentimento e la rima» e in cui «l’amore che egli tratta è il piú generale», le cui odicine sembrano «altrettanti capi d’opera nel loro genere che passeranno alla posterità piú remota e giustificheranno gli applausi e la predilezione del secolo che li ha veduti nascere»[18]. In realtà i brevi impeti, il brio spesso saputo e meccanico, la spigliatezza che decade tante volte in sforzo o faciloneria non giustificavano davvero un tale giudizio entusiastico e sfasato, perché la lieve poesia savioliana si risolve soprattutto in una abilissima formula di conciliazione fra canto metastasiano accolto piú superficialmente e deciso sviluppo della rappresentazione figurativa di origine rolliana, assumendo in un’abile poetica le condizioni piú tipiche del suo tempo galante, edonistico e innamorato della perspicuitas classica.

In questa formula felice e nella sua corrispondenza alle aspirazioni di una società fra letteraria e signorile che non amava piú il grandioso o il pastorale, né si contentava piú del semplice canto metastasiano, il Savioli seppe stringere piú che intere poesie rapidi e conclusi esempi di un ritmo di cammei[19] su di una generica e interessante trama di esile e sorridente melodramma erotico ridotto anch’esso alle minime proporzioni, privato dello sviluppo delle incertezze metastasiane, collocato su di una scena minima ma precisa ed evidente, con figurine fermate nei loro gesti essenziali di eleganza, di frivola delicatezza, di sorridente patetismo, e trasposte in proporzioni di cammeo, in termini di una mitologia leggiadra, familiare ed estremamente nitida.

Il potere di riduzione settecentesca (una specie di canocchiale rovesciato, una lente di perfetto impiccolimento[20]) è stato esercitato dal Savioli con estrema coerenza, ma ciò che lo distingue dal Metastasio e dal primo Settecento è appunto la presenza viva e visiva di quelle figure moderne e mitiche, la presenza di gesti e di movimenti fissati e rappresentati nella loro sensibile realtà e insieme un uso della lingua dei classici piú diretto e pieno.

Naturalmente in questa presentazione del Savioli funzionale allo studio di uno sviluppo della poetica settecentesca sul filo della volontà e della illusione classicistica prima della esperienza neoclassica, pur puntando su effetti diversi e costituendo una fase nuova di gusto classicistico rispetto a quella del Metastasio, occorrerà ancora precisare che reagendo alla preminenza del canto il Savioli tenne conto dell’esperienza metastasiana e dal seno di una condizione diversa, di fronte al prevalere di esigenze descrittive e discorsive[21], sollevò la sua poetica dell’evidenza elegante sulla base di una utilizzazione minore del canto e dell’azione melodrammatica, riducendoli in un ritmo piú monotono e scattante, in una articolazione piú secca e con minore fluidità.

Le piccole scene utilizzano motivi melodrammatici e galanti ridotti al minimo e li inverano in immagini (piú che in movimenti di sentimento e in risoluzioni di canto), in successione di quadretti, secondo una tecnica che lo stesso Parini risentirà fino ad applicare il ritmo e la strofetta savioliana per una rappresentazione ben diversa di storia morale in A Silvia, usufruendo del procedimento savioliano per il succedersi graduato e staccato dei quadri della progressiva corruzione delle donne romane.

Ma nella vicinanza maggiore a certa impostazione melodrammatica metastasiana (e quando il Savioli indulge di piú alla facilità del melodramma decade) la poesia degli Amori ha sempre decisione maggiore, riduzione piú sommaria delle perplessità, delle esitazioni incantevoli che aprono il passo alle ariette. Come nell’inizio del Destino

(Ch’io scenda all’artifizio

di mendicata scusa?

Non posso: il volto ingenuo

col suo rossor m’accusa.),

che ripropone la diversa accentuazione di elementi di rappresentazione di forme classicistiche piú sicure, di rapidità per effetti di incisività di scene che ben si vedono anche quando mancano vere e proprie figure catalizzatrici di questa sensibilità bisognosa di evidenza. Come nel finale in cui le nude parole allineate hanno un rilievo compendioso diverso dal canto metastasiano:

A tuo conforto io misero

che posso darti intanto?

Fredda amistà, silenzio

e breve inutil pianto.

O nel finale della diciottesima (Le Fortune) che realizza una mossa melodrammatica con accentuazione di colore e con estrema rapidità di risoluzione:

Per quel color purpureo,

che il tuo bel viso ha tinto,

per gli occhi tuoi che languidi...

Ma tu sorridi: Ho vinto.

Prevalenza di brevi azioni per risultati di scena rappresentati nella massima evidenza aggraziata[22], eppure non totale mancanza di una certa abilità e volontà di teatro melodrammatico. Ed in proposito non è da dimenticare che il Savioli fece un’indicativa prova teatrale con la tragedia Achille edita a Lucca nel 1761, ma già rappresentata in casa nel 1757.

È la tipica tragedia del classicismo rococò e se il Savioli raggiunge la sua massima forza personale negli Amori mi sembra che la sua tragedia possa ben essere considerata nella storia dei tentativi classicisti-rococò di metà Settecento e possa d’altra parte servire a completare l’immagine del letterato bolognese nella sua capacità di rappresentare gli stimoli e le aspirazioni del suo tempo teso a illeggiadrire il drammatico mondo dei classici e dar dignità classica al proprio costume. Come fa appunto il Savioli nella sua prefazione, a proposito di Achille innamorato e «raddolcito» con prudenza, scusandosi «se quella intolleranza e ferocia onde l’antico Omero veste il suo Achille, sono state per me raddolcite alquanto in grazia di una passione, la quale non potendo omettersi come quella che era la ragione della tragedia, voleva perciò esser trattata secondo l’uso del secolo. Ancora quest’uso l’ho io moderatamente seguito si ché ne avesse a soffrir meno la dignità del mio eroe...». Achille imparruccato ma vestito all’antica! e il mondo della tragedia greca rivisto tutto sub specie amoris, che era un modo di permeare quel mondo autorevole di sentimenti moderni e di rendere questi piú affascinanti e poetici scartando l’aperto melodramma (l’Achille in Sciro del Metastasio) e tentando una tragedia regolare e senza musica.

Ed infatti in endecasillabi molto agili e sicuri[23] vive un mondo di affetti e di personaggi languidi e vivaci (il languore dell’epoca rococò ha sempre mosse di scatto e di ripresa briosa e vivace e il preromanticismo si affermerà consumando in rilievo malinconico questa garanzia di brio sorridente, tormentando la sensibilità già desta, svolgendo sensismo in sentimentalismo[24]): Paride sospiroso per Elena, Achille spasimante per la bella Polissena e questa sdegnosa e segretamente innamorata di Achille.

Fremiti, attese, delusioni, e anche qui una presupposta lettura del Metastasio e un’estrema gracilità di costruzione (il rococò in poesia ha piú morbidezza che forza), con troppi ritorni di situazioni simili e insistenze sulla scena replicata tre volte dell’incontro tra Achille e Polissena. Ma è innegabile una capacità di presentare queste gracili figure di «patiti» d’amore, di farli muovere nell’ambito invalicabile delle loro pene piacevoli, di farli parlare in una modesta nobiltà di eloquio in cui echi arcadici («in quel suo orgoglio traveder gli parve / un non so ché che pur parea pietate») si sciolgono in un’eloquenza piú mossa e meno scheletrica, in un recitativo piacevole e decoroso, moderatamente colorito con un linguaggio piú ricco di quello melodrammatico ma di quello echeggiante le parole essenziali

(Alle donzelle

debole è il cor di lor natura, e solo

destinato agli amor. Quante s’udiro

odi eterni giurar, che il cor men fero

si compiacque smentir?)

e disposto ad utilizzare per piacevoli effetti drammatico-lirici anche spunti petrarcheschi («o ch’io di me medesmo e di mio stato / incerto vissi assai»). E la figura di Polissena viva nel continuo vagheggiamento di Achille, che la ricorda in atteggiamento di bellezza pietosa tra figura di bassorilievo e colore languido rococò

(Tu la vedesti

quella nemica amabile abbracciante

mesta le mie ginocchia, i suoi lamenti

e le sue preci a quelle unir del padre.

Un languido pallor che la tristezza

sparso le aveva sul leggiadro viso,

le incolte vesti, il biondo crin negletto

anziché torre a lei crescean beltade),

ha una sua grazia nobile, presa come è tra l’amore che appena osa rivelare a se stessa e il rispetto per il fratello Ettore ucciso da Achille, al quale solo in fine farà comprendere con delicati sottintesi la vera condizione del suo animo.

Ma vendicato ne sarete. Il tempo

o consoleravvi, e d’un amor che nato

era con tristi e troppo infausti auspici

ei spegnerà gli avanzi. In Grecia forse

v’aspetta un nuovo amor. Ma Polissena

non avrà altronde a consolarsi e s’anco

n’avesse pur, non vorrà certo. Io sempre

infelice sarò...

Pene sottili e senza violenza[25], un mondo greco rivisto con occhialetto di salotto settecentesco. E non certo risultati da capovolgere la nostra conoscenza del Savioli, non tali da costituire di per sé l’indicazione di una capacità di scavo profondo, ma tali da indicare attenzione a psicologia di tenerezza amorosa, che il poeta degli Amori riassume in direzioni piú succinte e sommarie (ma sarebbe cosí errato considerare quegli accenni rapidi per evidenza come abbozzi rozzi e superficiali) e tali da meglio giustificare il piano particolare degli Amori che si elevano nell’attività savioliana come momento successivo e definitivo di esercizio piú arduo e impegnativo su di una notevole capacità espressiva, su di una esperienza di classicismo rococò piú discorsiva e teatrale della cui esperienza usufruiscono per la loro rapida sintesi gustosa.

Esile trama melodrammatica ridotta ai minimi termini e tesa piú all’offerta di piccole scene di profili e gesti che non a svolgimento di temi sentimentali e, ripeto, soluzione degli esili motivi (la gelosia, l’attesa, ecc.) non in canto ma in figurine e in scenette rilevate e sensuose che, nell’elegante e leggiadra aura mitologica, assorbono e realizzano in immagine quel tanto di piacevole realtà che possono assumere nel loro prezioso ma limitato potere di rappresentazione.

La figurina dell’innamorato che attende infreddolito nella notte fuori dell’uscio dell’amata

(Taccio di me che assedia

l’acqua piú densa e greve

e i pie’ mal fermi agghiacciano

per sottoposta neve),

quella della fanciulla innamorata che attende alla finestra l’amato malgrado il tempo cattivo

(Né la sgomenta l’impeto

di freddo vento o pioggia

e sulla pietra rigida

il nudo seno appoggia),

il gesto della damina con il ventaglio con moti or lenti or rapidi, il rilievo delle belle mani «che d’Ebe agguaglian per lor bianchezza il seno» (tipica espressione di duplice rilievo sensibile e di collaborazione della mitologia alla rappresentazione di un dato sensibile) sono davvero, con le scenette mitologiche qua e là citate, esempi di questa piccola poesia e di questo classicismo rococò in cui lo spirito di un ingenuo ed edonistico sensismo si equilibra nella perspicuitas dei classici usufruita in effetti di minuta e rapida evidenza elegante.

Altri letterati si daran daffare a tradurre, a mediare i classici, a utilizzare la loro forma poetica per effetti di immediata evidenza in direzione didascalica piú o meno larvata (utile dulci), e verrà quasi contemporaneo il Parini con ben altra ricchezza e capacità, ma gli Amori restano un punto fermo del classicismo settecentesco e, mentre aprono una linea di poesia erotica classicistica che si sviluppa in piú matura atmosfera neoclassica e giunge a sciogliersi addirittura nel Foscolo, consolidano in generale (sull’avvio piú incerto e compromesso del Rolli e separandosi dalla tendenza metastasiana di cui assorbono e riducono l’essenziale trama di melodramma) la coincidenza di aspirazione classicistica e di poetica dell’evidenza elegante, del riferimento mitico e figurativo in precise condizioni di vivacità e leggiadria rococò di minuscole proporzioni, di piccola pittura ercolanense ornamentale.

Ben altra la capacità pariniana che non ha mai cadute di sciatteria e sa adeguare una realtà esterna e psicologica di ben altra profondità spiegandosi davvero in largo discorso poetico, in una sorta di epica ironica di tutto il mondo di cui il Savioli staglia piccoli e gustosi frammenti, ma quella forza piú superficiale e parziale seppe crearsi un piccolo ritmo di quadretto, un modulo di rappresentazione elegante e senza dispersione di una piccola realtà sentita in sensibilità visiva e tattile cosí intensamente da rimanere esemplare: sicché certe volte se ne avverte la presenza non solo nei piccoli neoclassici emiliani che il Carducci collegò al Savioli e che il Momigliano collocò in dipendenza savioliana, ma qua e là in poemetti e poesie del secondo Settecento accanto alle piú tipiche formule pariniane di fronte alle quali quelle savioliane risuonano come piú arcaiche e piú acerbe, ma anche piú spiccate nella loro posizione inconfondibile, nel loro ritmo secco e monotono. Come, per fare un esempio caratteristico, avviene nel falso pariniano La sera (Venezia 1766) in cui, nella contraffazione dello stile pariniano e nella ripresa di interi versi delle parti pubblicate nel 1763-65, spuntano improvvisamente, individuate come piccoli nuclei piú solidi, meno fluidi, immaginette savioliane come quelle della fanciulla al balcone con il seno nudo sulla pietra bagnata che doveva dare un intenso piacere alla lettura dei contemporanei con la sua nitidezza visiva, con il suo suggerimento sensuoso e sensuale e con il suo richiamo di elegia erotica latina.

Mentre il ritmo savioliano dava ai contemporanei il sottile ed equivoco gusto di una linea secca risentente soltanto la leggiadria delle figure, di una lontana eco di misure quantitative sotto la discreta presenza della rima che appare riacquistata in un superamento della canzonetta arcadica. Certo è che la produzione pariniana non cancellò l’impronta del Savioli e il vecchio Parini ne risentí a suo modo (in una ispirazione che svilupperà i fermenti piú seri del secolo da cui pure quella poesia era stata genuinamente prodotta) il fascino di formule metriche e figurative nella grande ode A Silvia e, come vedremo, nel suo alto neoclassicismo, laddove prevalse un’ispirazione di contemplazione galante, il motivo del «grato della beltà spettacolo» non sdegnò la vicinanza delle forme tanto piú frivole e superficiali del piccolo incisore degli Amori. Né andranno dimenticati (anche per meglio rendersi conto degli entusiasmi del Torti) le riprese nel Bertola, nel Monti, nel giovane Foscolo (in realtà attraverso la ripresa bertoliana) di schemi e moduli savioliani che sottolineano la persistenza lunga della suggestione del Savioli e la sua reale incidenza nel gusto del tempo. E – ciò che qui non si può che accennare – con una storia del saviolismo che potrebbe riuscire assai interessante nella poetica del secondo Settecento.

Mentre infatti il Bertola riesce a riprendere Savioli con molta coerenza e con un’abile introduzione nei suoi schemi di accentuazioni tenere, gessneriane e preromantiche, il Monti vi introduce a fatica la sua maggiore irruenza di sonata preottocentesca e volge le strofette savioliane al neoclassicismo piú scenografico e sontuoso della Prosopopea di Pericle o le apre alla ventata storica, e al senso fiabesco e fantastico dell’Ode al signore di Montgolfier. E il giovane Foscolo, dopo la ripresa savioliana-bertoliana delle odicine della raccolta Naranzi, sente il bisogno di allungare la misura savioliana nelle strofe di sei versi della prima ode o in quella della seconda con lo slargo dell’endecasillabo finale, superando piú decisamente la base savioliana in una musica piú varia ed alta che ne brucia i margini troppo stretti e compendiosi e la implicita galanteria rococò e libertina nel ritmo piú slanciato e libero, nella fruizione intensa della vitalità come bellezza e della bellezza come ristoro.

Ma tutto ciò ben indica comunque la forte presenza del Savioli nella lirica di secondo Settecento.


1 Il Croce ha notato per il Savioli uno stile «molle e impreciso come era di frequente nel Settecento» (La letteratura italiana del Settecento cit., p. 167). Ma occorre dire che ciò era il risultato di uno sforzo di delicatezza e precisione (che d’altra parte venne a volte raggiunto), indicando la mèta di tensione di questa poesia e il singolare impasto di attenzione artistica e di facilità improvvisatoria ed ancora in altri casi di urto tra il desiderio di compiutezza e quello di una rapidità estrosa e sommaria. Ma insomma pur tenendo conto di un certo esito approssimativo occorre sentire nei suoi veri termini il piccolo ma sincero tormento espressivo, l’origine complessa di questo stile non puramente dilettantesco.

2 E si veda come nel classicismo razionalistico popiano gli italiani potessero assorbire stimoli ambiguamente preromantici (Abelardo ed Eloisa, le Quattro stagioni) e, ad ogni modo, stimoli ad un classicismo ricco del senso della realtà che operò soprattutto a metà secolo, e un gusto dell’evidenza sensoriale meno presente nell’Arcadia metastasiana e cartesiana.

3 Si rilegga la dichiarazione saggiamente entusiastica di Voltaire a Venere (all’inizio del canto XV della Pucelle d’Orléans), rielaborazione caratteristica dell’inno a Venere lucreziano cosí efficace nella mente degli uomini del Settecento. E si pensi piú in lontananza al Parini e al suo serio edonismo naturalistico santificatore del piacere: «là con avida brama / sussurrando ti chiama». Ma il Parini sentirà religiosamente la naturalistica offerta di sensazioni e sentimenti o «sensazioni interne» da razionalizzare, da sottomettere all’«alma rettrice» per creazione di civiltà superiore, come si vede dalla Educazione.

4 Anche il Seicento marinistico aveva avuto un credo sensualistico, ma lo aveva risolto in una esplosione di metafore e di concetti, in uno sfrenato gioco di miti allegorici e in un torbido ed equivoco travestimento spiritualistico o in effetti di novità e di colore, come in quei sonetti pittorici che nel Settecento arcadico vengono appunto riprendendo lo schema barocco e lo risolvono o in un colorismo eclettico e di falsa grandiosità o lo adeguano al nuovo gusto di precisione e di evidenza. E si veda in proposito il saggio crociano sui sonetti pittorici (in Letteratura italiana del Settecento cit.) che punta giustamente sul Cassiani e sui suoi risultati notevoli proprio quando, piú che l’effetto grandioso e movimentato che pure colpí i lettori e fu efficace soprattutto sul Monti nel periodo romano di rinnovata Arcadia barocca, egli ricerca la viva rappresentazione del gesto di una figura colta nella sua espressione sensibile.

5 Cosí in un recente e volenteroso esame degli Amori (M. Coroneo, Gli Amori del Conte L. Savioli, giovin signore con qualche occupazione, in «Annali della Facoltà di lettere di Cagliari», XVII, 1950) spicca come eccessivo un «mirabile per la fusione talvolta perfetta di forme e contenuto».

6 Lo studio di E. Levi-Malvano (L’elegia amorosa nel Settecento, Torino 1908) è veramente essenziale per la generale collocazione del Savioli e per tutto il côté erotico classicistico.

7 A parte le proteste ufficiali sulla distinzione fra le «favole» pagane e la fede cattolica del poeta che appaiono come uno scongiuro convenzionale nei libri settecenteschi dalle Rime degli Arcadi in poi.

8 Diversa è la precedente reazione, puramente conservatrice in senso arcadico, contro il prevalere della filosofia sulla bella poesia, testimoniata dalla prefazione del Tommasi all’edizione, del ’35, delle sue Rime. Come diversa sarà la reazione neoclassica.

9 Si è forse troppo accentuato il carattere musicale del Settecento sulla scorta di indicazioni celebri come quelle della Vernon Lee, a scapito del gusto del figurativo e del coloristico e del pittoresco che a quello si associò e addirittura sembrò spesso dominare, finché con il romanticismo si può osservare una certa ottusità alle arti figurative e il vero trionfo della musica come massima espressione dell’animo romantico.

10 E si chiarisca una volta per tutte che, se il neoclassicismo tenderà ad avvicinare l’epoca piú alta della classicità, in realtà utilizzerà e spesso travestirà a modo suo gli esemplari del piú decadente ellenismo, il classicismo precedente a Winckelmann o rimasto piú indipendente da lui – e in Italia si assisterà al permanere di correnti classicistiche di origini rococò mescolate e non fuse con il vero neoclassicismo – è totalmente affidato a suggestioni alessandrine ed ellenistiche come in letteratura sentí Anacreonte, Ovidio, Orazio, l’Antologia e non certo Omero e Pindaro, mentre Lucrezio è sentito non per il suo dramma ma per la sua lezione di espressione scientifica di tipo sensistico.

11 A. Momigliano, Gusto neoclassico e poesia neoclassica (con lo pseudonimo di G. Flores), in «Leonardo», 1941, e poi in Cinque saggi, Firenze 1945.

12 Il Sismondi nelle sue belle pagine sul Savioli nella Littérature du Midi, Bruxelles 1837, II, pp. 42-43, interpreta il classicismo savioliano al di là del neoclassicismo in un rinnovato paganesimo: «On dirait que Savioli est un poète païen; il ne sort jamais de la mythologie classique; elle semble, pour lui, faire partie du culte de l’amour: elle est si bien en harmonie avec ses sentiments habituels, elle lui est devenue si naturelle, qu’on le juge comme un latin ou comme un grec et qu’on n’est point refroidi par ce qui chez lui est un culte et chez d’autres une allégorie».

13 La prima è vagamente adornata da incisioni di paesaggio e da un’incisione iniziale tipicamente rococò: il poeta in abito moderno e languidamente abbandonato con penna in mano e orecchio porto a Cupido e a Venere sullo sfondo di un nitido profilo di Bologna. Nella seconda invece solo un cammeo con Venere.

14 Il metro degli Amori fu usato per la prima volta nel 1746 dal Rota, maestro del Savioli, ma solo con la sua adozione costante da parte del Savioli in tutto il suo libro divenne esemplare nella lirica settecentesca.

15 Si noti in questa figura di Saffo la mancanza di ogni vero intenerimento preromantico che sarà invece la nota nuova introdotta dal Bertola nelle sue riprese savioliane.

16 Il Foscolo del 1800 si ricordò di questi versi nel finale della Ode alla Pallavicini, ancora tutta echeggiante di cadenze e modi savioliano-pariniani.

17 Il procedimento tipico del Savioli consistente nel rilevare col richiamo mitologico il contesto che aspira a gustosa evidenza (piú che a «delicatezza e precisione» che secondo l’editore di Rimini, 1792, sarebbe il segno della perfezione savioliana) nel chiudere movimenti e serie di quadretti miniaturistici con un esplicito rinforzo di quel mondo lieve e settecentesco di miti eleganti ed edonistici, è cosí essenziale per lui e coincidente con un istinto di sommarietà lucida e di declamazione rappresa in un’immagine che anche nell’ode senile In occasione della festa nazionale celebrata in Milano nel giorno 26 Giugno 1803 i due settenari finali chiudono la strofe decorosa e fiacca con un’immagine piú precisa in cui il Savioli porta la massima forza della sua stanca ispirazione e chiede il massimo aiuto alla suggestione del linguaggio classico e della figuratività mitologica:

Palla propizia arride

e Atene sua ricorda...

Dal taciturno avello

austere ombre de’ Curi!

18 Prospetto del Parnaso italiano, Firenze 1828, III, pp. 204-213.

19 Si pensi, in una direzione in cui certamente la presenza del Savioli è innegabile, alla prima ode del Foscolo e si capirà nel confronto stilisticamente non impossibile come il giudizio del Mazzoni (Ottocento, Vallardi 1934, I, 39) ripreso dal Porena («Atti dell’Accademia dei Lincei», 1936, p. 420 ss.) (collana di cammei e poesia da salotto e da boudoir), errato nei confronti del Foscolo, sia totalmente vero per il Savioli.

20 E lo stesso canone della bellezza rococò è di modeste proporzioni: la donna dei pittori è per lo piú piccola e rotondetta, nei palazzi si ricavano salottini quartierini e mezzanini come a Ca’ Rezzonico a Venezia, e piccole alcove che rispondono a questo bisogno di intimo e di minuscolo.

21 Ed è qui che trova una certa giustificazione il giudizio del Torti che vedeva il Savioli nel piano dei versiscioltisti illuministi e classicheggianti: «Egli ne ricavò quei suoni deliziosi, ed impose silenzio al rauco frastuono, alla ventosa eloquenza degli orgogliosi scioltisti», op. cit., p. 205.

22 Non occorrerà ricordare che come ogni «passione» qui è assente, cosí è assente ogni violenza e il realismo nobilitato classicamente è sempre su di una direzione piacevole, omogenea all’aura elegante. Nulla di quanto vi porterà il Parini e si confronti in proposito la scenetta della Damina in preda ai «vapori» (All’Ancella) con la scena complessa del Giorno (Vespro, 189-213).

23 Questa agevolezza è precedente allo sforzo di concisione degli Amori che nasce cosí con una sicura volontà di superamento di una scioltezza già acquisita con un intento e un’illusione di maggiore liricità di tipo classico.

24 Si veda, per questa affermazione di svolgimento piú che di rivolta dall’illuminismo sensista al preromanticismo› il mio Preromanticismo italiano, Napoli, 1948, 2a edizione 1959, specialmente nel capitolo sul «Caffè».

25 Una violenza piú di eloquio che di vera vita drammatica è nella parlata di Ecuba trasformata in virile odiatrice di Achille. Tuttavia le sue parlate sono notevoli per certi effetti di facile, fluida impetuosità, testimone delle capacità stilistiche e letterarie del Savioli e del suo uso abile del verso sciolto:

I tuoi fratelli estinti

dunque mai non avranno altro che pianto?

... Ettorre,

ch’ultimo dono all’inimico amaro

lasciò presagi di infallibil morte,

per mia bocca ti parla alto, e l’attende:

per tua difesa ei giace: e tu vivrai,

né avrà vendetta? In questi luoghi, il vedi,

la destinata vittima al tuo braccio

abbandonano inerme i Dei di Troia...